..."Rock won't eliminate your problems, but it will sort of let you dance all over them"

domenica 30 novembre 2008

QUATTRO PALLE DI NEVE

Dal gelo di San Pietroburgo la Juve si rituffa in campionato, dov’era chiamata a fugare i dubbi sorti dopo la sconfitta di Milano. La serata torinese riserva condizioni climatiche, se possibile, addirittura peggiori di quelle incontrate in Russia: vento e freddo polare, pioggia e nevischio all’inizio, bufera di neve dal quarto d’ora finale del primo tempo. E un avversario, la Reggina, dato in salute visti i due successi consecutivi contro l’Udinese al “Friuli” e contro l’Atalanta al “Granillo”.
L’iniziale disposizione difensiva dei calabresi (tutti tesi a proteggere la propria trequarti) rendeva assai complicato creare spazi per la squadra di Ranieri, pericolosa sulle palle inattive (testa di Chiellini fuori di poco e mischia in area con rigore non accordato a Del Piero: e anche stavolta silenzio) e subito penalizzata dall’infortunio occorso a Camoranesi, che, caduto male sulla spalla destra in seguito allo sbilanciamento dovuto ad un contatto aereo, passa i primi venticinque minuti in puro stile Beckenbauer edizione Italia-Germania 4-3. Braccio rigido attaccato al corpo, equilibrio più che precario. Marchionni si scalda per minuti ma l’oriundo insiste e resta stoicamente in campo. Mauro trova il modo di concludere una splendida combinazione in velocità tra Del Piero e Nedved, scaraventando in rete un destro rabbioso a porta semivuota. Surreale il festeggiamento, con l’autore del gol più preoccupato dall’evitare il contatto con i compagni che di riceverne i complimenti.
La Reggina a quel punto esce dal guscio, colpisce una traversa con un intervento fortuito di Alvarez ma pochi istanti dopo Del Piero va vicino al raddoppio, chiamando Campagnolo ad un grande intervento. Ma il miracolo vero il portiere reggino lo compie a pochi minuti dal termine del primo tempo, quando Nedved gli si presenta a tu per tu e calcia di sinistro a colpo sicuro: l’estremo calabrese risponde alla grande deviando oltre la traversa. Poco male comunque perché, mentre sull’Olimpico si scatena una bufera di neve di rara intensità, Amauri stoppa una palla a centro area, si gira e batte il bravo e incolpevole Campagnolo per un 2-0 ineccepibile già a metà gara.
La ripresa (che si apre con Marchionni al posto di Camoranesi, evidentemente in difficoltà) scivola via nella bufera di neve, col terreno che assume una colorazione tipo campetto sintetico; e la Juve dilaga con un gol di Chiellini e il 250° sigillo juventino di Del Piero, che realizza un rigore guadagnato da Giovinco, voglioso e propositivo nonostante l’ingresso a gara praticamente finita. Momento di nervosismo sul 3-0 con una punizione battuta a sorpresa da Brienza che finisce in rete: la discussione sulla richiesta (o meno) della distanza scatena una bagarre tra i reggini e il direttore di gara.
In sintesi, la pratica si è risolta con sostanziale facilità, la squadra conferma di star bene e San Siro (in fatto di mentalità) sembra essere stato un episodio, per quanto brutto e certamente da analizzare a fondo, proprio perché coinciso con un match chiave, in modo che non succeda più, come altre volte in passato, di inciampare sull’ultimo, decisivo, scalino: quello che separa la buona dalla grande squadra. Uno scalino apparentemente basso, ma sul quale in questi due anni Ranieri è sempre inciampato fragorosamente.

sabato 29 novembre 2008

L'ORSO VA IN LETARGO

Le imprese quotate in borsa saranno blindate. E' questo che emerge, negativamente, dal decreto anticrisi approvato in pochi minuti dal Consiglio dei Ministri.
Nei 36 articoli di cui si compone la bozza del decreto legge, secondo l'articolo 13, saranno meno stringenti i vincoli che dovranno rispettare le società soggette a Opa.
D'ora in poi, senza necessità di assemblea straordinaria - comma 4 - e del 30% per mettere in atto strategie difensive da parte del soggetto sotto scalata, le Opa ostili saranno di fatto impossibili sul mercato italiano.
Lamberto Cardia, presidente della Consob, con due audizioni in Parlamento ha sollecitato l'introduzione di modifiche alla normativa contenuta nel Testo unico della finanza, proprio in considerazione della forte crisi finanziaria in corso che, provocando un violento e spesso irrazionale abbattimento dei corsi azionari, rende le società quotate più vulnerabili. "L'attuale situazione del mercato – aveva infatti sottolineato Cardia – ha fatto emergere nuove preoccupazioni sull'esposizione delle società quotate a tentativi di acquisizioni ostili".
Io credo che questa situazione non faccia altro che mettere l'Italia nella posizione di rimetterci, per due semplici motivazioni:
a. con un'elevata contendibilità delle imprese quotate in borsa non si può altro che avere da guadagnare;
b. in caso di eventuali scalate ostili, o considerate a rischio, basterebbe l'azione speciale nelle mani del Governo.
Detto francamente con l'adesione al modello franco-tedesco da parte del governo Berlusconi, è come dire ai patti di sindacato italiani che tutto ciò che controllano oggi lo controlleranno per sempre con il risultato che, le banche e gli industriali di sindacato, risolveranno ancora meglio tra loro il problema degli incroci che fino a prova contraria occorrerebbe aiutare a smontare, invece che rafforzare con acciaio e cemento.
Chiudo con la nota più sorprendente del decreto, riportata oggi con grande puntualità da Oscar Giannino su Libero Mercato, riguardante la norma dedicata al nuovo regime "volontario" per il riallineamento contabile delle imprese.
Questa norma non è riservata a banche, assicurazioni e quotate che si vedono agevolate dalla sospensione dello IAS39, ma è esteso all'intero universo delle imprese, la sospensione dei fai value, anche per quelle che non vi erano soggette, e anche per attivi patrimoniali come gli immobili, oltre a tutti gli intangibili in caso di fusioni, acquisizioni e cessioni di rami aziendali.
In tempi di massiccio deleveraggio degli attivi, moltissime imprese avranno convenienza a rivalutare asset attualmente computati patrimonialmente a valore libro.
Dagli esperti fiscali consultati dal direttore, del supplemento finanziario di Libero, emerge che questa norma può valere per il fisco da un minimo di 4-5 miliardi di euro fino a 8-10, per il 2009.
In pratica Tremonti avrebbe trovato il modo di ricavare entrate aggiuntive, proponendo alle imprese un patto di crescita patrimoniale che di questi tempi rientra prioritariamente nei loro interessi.
Nel momento che tutto diventerà attuativo ne vedremo delle belle, con un'atmosfera che potrebbe diventare rovente.
Giannino in conclusione ha sottolineato: "Giulio all'inizio sembra che una ne faccia e cento ne pensi, ma poi centouno ne mette in opera".
di Cirdan

POGROM A MUMBAI

Uno solo, nella dozzina di obbiettivi dei terroristi islamici a Mumbai, era un centro religioso. Era, naturalmente, ebraico. E’ terribile doverlo constatare, ma i mohjaeddin non hanno scatenato la loro violenza omicida contro nessun tempio indù, o buddista, contro nessuna chiesa, non hanno preso nessun ostaggio a causa della sua fede. Ma hanno crivellato di colpi un rabbino e sua moglie, hanno massacrato altri sei ebrei, hanno distrutto una sinagoga. Questa, non la caccia ai turisti occidentali, non la distruzione degli alberghi di lusso è la notizia simbolo più atroce, nel mare di atrocità dei tre giorni di sangue di Mumbai. I mohjaeddin hanno ucciso otto ebrei, otto ostaggi, legati, gli unici ostaggi che non siano stati liberati. Perché ebrei. Per nessun altra ragione. Insomma: a Mumbai c’è stato un vero e proprio pogrom. Questa è la tragica realtà, questo è il termine giusto: pogrom. Né vale neanche la parvenza, che può far velo, di un jihad contro Israele. Il movimento dedicato al rabbino Lubawitz, della Nariman House di Mumbai è un centro chassidico, appartiene cioè a una componente dell’ebraismo notoriamente antisionista, i cui fedeli spesso ritengono anzi illegittima –per i loro canoni di fede- la definizione di Israele come Stato ebraico. Ma i chassidim sono ebrei. Il giovane rabbino Gavriel Holtzberg era ebreo, sua moglie era ebrea, gli altri sei ostaggi erano ebrei. Per l’Islam praticato dai mohjaeddin di Mumbai tanto basta per trucidarli. Nessuna sacralità per la sinagoga, nessun rispetto per l’intensa attività sociale –soprattutto contro la droga- che si svolgeva nella Nariman House. Così, alla fine, sui 22 stranieri, non indiani, vittime della follia omicida dei mohjaeddin, su 200 morti complessivi, ben otto, il gruppo più numeroso, sono ebrei. Sono solo numeri questi, ma che dicono molto, troppo. Dicono innanzitutto che quel che ha tanto impressionato i media occidentali –“la caccia allo straniero”- in realtà, se c’è stata, è stata parziale.
Dicono che l’obbiettivo principale dei commandos era massacrare indiani, il più possibile Dicono però che i più odiati tra gli odiati da questi musulmani terroristi, sono gli ebrei. Non è la prima volta che questo accade. Lo vedemmo già in Iraq, quando assistemmo racapricciati al videotape dello sgozzamento del primo ostaggio di al Qaida in Iraq: Nick Berg era ebreo e questo fu rimarcato come principale atto d’accusa dai suoi macellai. Pure, i media mondiali, incredibilmente, stentano a notare, e quindi a esecrare, questa caratteristica orrenda dell’Islam terrorista: è un Islam antisemita. E’ un Islam che odia e massacra gli ebrei. Si dirà, con piena ragione, che questo non è tutto l’Islam. E’ assolutamente vero: i mohjaeddin di Mumbai appartengono a uno scisma musulmano. Rappresentano una minoranza estrema nel grande mondo dell’Islam. Ma è anche assolutamente vero che non abbiamo ancora sentito dal grande mondo dell’Islam di pace, una parola, una sola, di condanna del pogrom di Mumbai. E con ogni probabilità non la sentiremo.
da Il Tempo del 30 novembre

LANA DEL RIO: DOPO 21 ANNI C'E' VOLUTO UN "SANTO"


Era il lontano 1987 quando Gitana D'Asolo - scuderia Biasuzzi con in sulky Mario Rivara - impose la legge della più forte per aggiudicarsi il 70° Derby del Trotto italiano.
Ventuno anni di attesa per vedere nuovamente passare il palo per prima alla quattordicesima femmina - su 81 edizioni - della storia del Derby, con il binomio Lana del Rio-Santo Mollo.
La dominatrice della leva 2005 dopo avere dominato in lungo e in largo tutte le prove di gruppo I dei tre anni, ha imposto la legge della più forte anche in questa occassione, nel giorno più importante, nella corsa della vita.
Il ritiro di Lord Capar - una delle varianti positive per la vittoria della figlia di Varenne - ha permesso a Santo Mollo di partire a tutta e scavalcare al via la controfavorita della corsa, quella Lisa America, anch'essa figlia del Capitano, che dopo le batterie del 29 settembre e del pre sciopero, aveva offerto le migliori garanzie per la vittoria finale.
Lo stacco in 15.4 e i primi 400 metri passati in 31.4 - con frazione intermedia in 16.0 - hanno consentito a Lana del Rio di prendere il comando dopo 500 metri di corsa, mettendo una seria ipoteca sulla vittoria finale.
Le posizioni si assestavano con il primo passaggio davanti alle tribune: Lana del Rio davanti a Lisa America, seguite da Light Kronos e Libeccio Grif, con Letter From Om che si estrometteva per probabili problemi fisici.
Il primo chilometro veniva transitato da Lana in un "normale" 1.16.8 senza che nessuno le venisse ai fianchi. Dopo la penultima piegata la corsa si cominciava a movimentare con Lisa America che, sul rettilineo di fronte alle tribune, veniva fuori dalla scia di Lana e con frazione violenta cercava di impensierire la leader.
Le mani ferme di Santino Mollo lasciavano presagire che Lana del Rio aspettasse solo la retta di arrivo per scappare verso la gloria, e dopo la conclusiva piegata con frazione in 13.6, lasciando le posizioni immutate, la figlia di Varenne entrava per prima in retta.
Santo Mollo dopo essersi guardato a destra e sinistra per controllare le posizioni iniziava a richiamare Lana e, preoccupandosi solo della sua allieva, allungava scrollandosi dalla schiena Lisa America, che veniva infilata all'interno da Light Kronos e impensierita all'esterno da Libeccio Grif.
Gli ultimi cinquanta metri diventavano per Lana del Rio un'apoteosi e il lancio del frustino da parte di Santo Mollo era la perfetta fotografia dell'incalcolabile gioia per il driver calabrese che, dopo aver perso il Derby del 2005 in sulky a Fleche a scapito di Fairbank Gi, poteva finalmente iscrivere il proprio nome tra i vincitori della classicissima per i tre anni allevati nella penisola.
Gli oltre quaranta giorni di sciopero e, come precedentemente evidenziato, il ritiro di Lord Capar, hanno senza dubbio agevolato la vincitrice - come onestamente dichiarato da Santino Mollo nelle interviste post corsa - ma questo non toglie una virgola alla prestazione odierna di Lana, che per la prima volta ha corso ufficialmente senza ferri: ultimi 600 metri in 41.7, ultimi 800 metri in 55.7, suddivisi in 27.6 e 28.1, chilometro conclusivo in 1.11.4 con rotolo complessivo, per i due giri di pista, in 2.28.2 (2100 metri in 2.34.2), per un ragguaglio al chilometro in 1.13.4.
Parziali: 6 (100), 30.6, 30.5, 31.4, 27.6, 28.1
Una vittoria figlia della classe e del lavoro di tutto il team di Santo Mollo, che ha creduto, oltre un anno e mezzo fa, sulle qualità della campionessa da Varenne e Urbem D'Asolo - l'ennesima coincidenza per andare contro la storia - per essere gratificati e premiati nel giorno che inevitabilmente cambia il corso della carriera di un trottatore.
A fine corsa Santo Mollo ha dichiarato che ora Lana sarà messa, meritatamente, a riposo e che in futuro si cercherà di guardare ad un programma che permetterà alla Derbywinner di proseguire una carriera fatta, ad oggi, di vittorie e Gruppi I.
Si chiude così il 2008 di Lana del Rio, una stagione che rimarrà nella storia e che sarà difficilmente ripetibile nel prossimo futuro, le vittorie in sequenza di: Milano Premio Emilia - femmine - Gruppo III, Modena Premio Tito Giovanardi-Mem. G.Ghittoni - Gruppo I, Napoli Gran Premio Citta' Di Napoli - Gruppo I, Milano Gran Premio Nazionale-Mem. G.Ferraris - Gruppo I, Torino Gran Premio Avv.Carlo Marangoni-Mem.Fabio Jegher - Gruppo I e l'odierno 81° Derby Italiano Trotto a Roma sono un record che non lasciano spazio né a critiche né ad eventuali rimpianti per chi, probabilmente, avrebbe avuto molte più chance se il Derby si fosse corso a metà ottobre.
Circa due mesi fa, in questo spazio, avevamo scritto di come le favole, spesso, nel momento in cui tutto sembra prendere la giusta piega hanno un brusco risveglio, e dove disgrazie e imprevisti sembrano ribaltare un lieto evento, domandandoci se la favola di Lana del Rio non abbia voluto prendersi la briga di creare un po di attesa e di rendere il suo finale ancora più bello.
Oggi siamo qui, a celebrare la "nostra" Campionessa, perchè da quando l'abbiamo adottata sono passati giorni, mesi e tante belle corse, spesso vittoriose, e mai come adesso possiamo urlare che andare contro la storia non ha avuto davvero prezzo, grazie Lana!
di Cirdan

venerdì 28 novembre 2008

MUMBAI OBBLIGA OBAMA

... a mettere subito le mani nel ginepraio del Pakistan, vero baricentro del terrorismo islamico (L'Occidentale del 28 novembre)
Il primo ministro indiano Manmohan Singh, ha energicamente chiesto che il capo dei servizi Isi del Pakistan, il tenente generale Ahmed Shuja Pasha, si rechi immediatamente in India per riferire quello che sa della battaglia di Mumbai. Richiesta assolutamente irritale, che ha preso in contropiede il premier pachistano Raza Gilani che aveva telefonato a Singh per una rituale telefonata di condoglianze. Richiesta che qualsiasi altro stato avrebbe gentilmente declinato (inviando protocollarmene il ministro degli Interni) e che invece Gilani e il presidente della Repubblica Zerdari hanno dovuto immediatamente accettare, pur nella piena convinzione che da questa visita e dallo scambio di informazioni tra Islamabad e Dehli non potranno che venire fortissimi contraccolpi politici –e anche peggio- nel già tormentato Pakistan. Il responsabile dell’Isi infatti, sa benissimo che hanno ragione i servizi indiani –e la Cia- quando sostengono che l’attentato del luglio scorso contro l’ambasciata indiana di Kabul è stato organizzato da settori del suo servizio. Sa anche, che le accuse di piena compromissione di una parte dei suoi servizi nella carneficina di Mumbai sono assolutamente vere e quindi, questa “convocazione” eterodossa si risolverà in doppio disastro. Assieme alla pessima figura che faranno i servizi pakistani, l’umiliante rendiconto che dovrà fare e le imbarazzanti risposte che dovrà fornire ai colleghi indiani provocherà –come sempre- una dura reazione proprio dei settori “deviati” dell’Isi, con un non piccolo problema in più: nell’Isi, a essere “deviata” non è affatto una minoranza del servizio, ma l’intero corpo, con l’eccezione solo di alcuni vertici –non tutti- e di alcuni responsabili di settore. Questo, perché la battaglia di Mumbai mette il sigillo sull’unico, vero, errore strategico che l’amministrazione Bush ha consumato nella battaglia al terrorismo. In perfetta continuità infatti con le amministrazioni Usa, che da Carter in poi hanno considerato i vertici militari pakistani il perno strategico dell’intero equilibrio dell’Asia continentale, Bush si è infatti illuso che il regime di Musharraf –che decise in 24 ore di passare dall’appoggio dei Talebani al loro contrasto- potesse esserlo nella lotta al terrorismo. Ma l’intero quadro di comando delle Forze Armate pakistane ha due caratteristiche biografiche uniche al mondo: è interamente composto da militari che 38 anni fa, a inizio carriera combatterono la sanguinosa guerra del Bangladesh contro l’India ( un milione di morti) e quelle –minori- per il Kashmir, e poi è interamente composto dai migliori quadri militari di quella guerra che il generale Zia ul Haq volle al suo fianco dopo il golpe del 1978. Ma Zia ul Haq era un fondamentalista, reintrodusse la shari’a, punì con la morte il reato di blasfemia anticoranica e creò un equilibrio unico al mondo: un quadro militare fortemente motivato in direzione fondamentalista, dotato però di una formazione tecnica –fornita dagli usa- di primissimo grado, tanto che pilotò l’acquisizione della bomba atomica (sempre in funzione antindiana).
Negli ultimi 20 anni, nel caos dei vari governi che si sono succeduti a Islamabad, questo quadro militare ha mantenuto la sua omogeneità politica, il suo profondo odio antindiano, la sua ideologia fondamentalista. Musharraf, capo di stato maggiore, nel 1999 provocò la guerra a bassa intensità con l’India a Kargil, nel Kashmir, appoggiò in maniera determinante i Talebani (letteralmente organizzati e istruiti dai generali pakistani dell’Isi) e consolidò la strategia pakistana che da Zia ul haq in poi ha sempre considerato l’Afghanista “spazio vitale” per la sicurezza del Pakistan. Il 12 settembre 2001, in poche ore e “oliato” con due miliardi di dollari (che in parte intascò, in parte distribuì a generali in posizione chiave, in parte investì nella forze armate), Musharraf cambio radicalmente strategia, e si mise a combattere –in teoria- contro tutte le sue iniziative, strategie e alleati degli ultimi anni. La incredibile illusione dell’Amministrazione Bush –peraltro mai contestata da nessun esponente democratico- fu quella che tanto bastasse. In realtà, l’influenza e la forza dei generali fondamentalisti dell’Isi è stata tale da intralciare in maniera mortale la stessa lotta al terrorismo. Se Osama bin Laden è ancora libero, assieme a tutto il vertice di al Qaida, lo si deve solo e unicamente all’esplicito aiuto dell’Isi.
Insomma, quella generazione di generali che si fece le ossa nel Bangladesh e che poi salì a posizioni di comando con Zia ul Haq, costituisce una sorta di formidabile “motore immobile” che alimenta, rafforza, arma e aiuta tutto il grande arcipelago del terrorismo islamico nell’Asia continentale. Lo stesso attentato del luglio 2005 a Londra è prodotto di questa dinamica infernale.Mumbai, dunque, segna una tappa fondamentale in questa vicenda, perché ora l’Isi ha passato il segno, perché ora è evidente che né Zerdari, né Gilani, né il generale Kayani (su cui gli americani puntano tutte le loro carte, anche perché controlla materialmente l’arsenale atomico) riescono a controllarne l’operato. E’ infatti evidente che gli attentatori sono in maggior parte indiani e che indiana è la dinamica profonda di quella follia, ma senza l’appoggio logistico e operativo pakistano –vedi l’eccezionale addestramento militare dei terroristi- il risultato sarebbe stato infinitamente minore.
Questo è dunque il primo rebus che si troverà davanti Barack Obama il 21 gennaio prossimo: come venire a capo di una cancerosa crisi pakistana in cui il centro del carcinoma è proprio in una parte delle forze armate e dei servizi di un paese dotato di bomba atomica.Quando in campagna elettorale gli è stato chiesto cosa avrebbe fatto nel caso l’arsenale atomico pakistano sfuggisse al controllo del governo civile di Islamabad, Obama promise un immediato intervento militare statunitense in Pakistan, anche unilaterale, se necessario.Mumbai segna un passo in avanti verso questo scenario.

L'OTTIMISMO E IL PROFUMO DEI DENARI


Partiamo con un bel conato di vomito, anche per chi ha uno stomaco di ferro, perchè quello che leggeremo farà da viatico ad una veloce corsa in bagno.
L'azienda più bollita del momento, che ha lasciato ai cittadini una caterva di debiti dopo che nella stessa sono defluiti un'ingente quantità di fondi pubblici, si permetterà di ricoprire d'oro il professor Augusto Fantozzi, il tributarista commisario straordinario di Alitalia.
Premettiamo subito una cosa, l'ex Ministro delle Finanze non ha né colpe né tantomeno va messo sotto accusa, fa solo parte di legislature sbagliate e di una legge - come ha sottolineato Daniela Santanchè, leader del Movimento per l'Italia - che è un insulto al Paese, soprattutto adesso che sta attraversando una drammatica fase economica.
Tutto nasce, comprensivamente, da un gruppo di esponenti del Partito Democratico che hanno presentato un'interrogazione parlamentare per sapere se i 15 milioni di euro - la somma che sarebbe destinata al commissario straordinario - non siano un compenso eccessivo.
Fantozzi si è fatto immediatamente sentire - dopo che le agenzie di stampa avevano dato comunicato dell'interrogazione parlamentare - precisando che non ha avuto, ad oggi, alcuna proposta, né sottoscritto alcun contratto o compenso, e che nel frattempo la Camera dei Deputati ha correttamente sospeso l'erogazione dell'indennità, a decorrere dal mese di settembre.
E a conti ancora non fatti l'ex Ministro non ha nemmeno tutti i torti, difatti la legge - DM 28 luglio 1992 n. 570 - prevede che i compensi per i commissari straordinari vadano calcolati percentualmente sulla massa dei passivi, degli attivi e dell'ammontare dei realizzi, e che saranno noti e controllati dal giudice al termine della procedura commissariale.
In questi giorni la politica sta chiedendo ai cittadini di guardare con ottimismo al futuro; ma se da un lato il cittadino non può far altro che stringere la cinghia, mentre dall'altro quella formidabile macchina produttrice di debiti consentirà all'onorevole Fantozzi di assicurarsi un più che lauto compenso, si rischia inevitabilmente di non credere più né in questa politica - di per se già poco credibile - né al futuro - anch'esso sempre meno fiducioso - .
Come precedentemente evidenziato nessuno deve mettere in croce l'ex ministro dei Governi Dini e Prodi, la materia dei compensi dei commissari straordinari è regolata da un decreto ministeriale che lo tutela, ma proprio sull'indecenza di questa legge urge un intervento da parte dell'esecutivo.
La presidenza del Consiglio ha diramato una nota ufficiale in cui conferma le dichiarazioni di Fantozzi, definendole puntuali e precise - e ci mancherebbe - in riferimento alla legge e alle procedure, aggiungendo che i soldi, il commissario straordinario, li riceverà al termine del suo lavoro, una procedura che potrebbe durare sette anni.
La nota più lieta però dovrebbe arrivare proprio da questo esecutivo - visto che la durata del mandato di Fantozzi potrebbe non interessare il governo Berlusconi - per evitare che si ripetano episodi come questo, a prescindere dalle cifre, e per offrire ai cittadini la visione di un'Italia giusta e ottimistica.
di Cirdan

VALENTINO ROSSI CHIUDE UN 2008 DA NUMERO UNO


MotoGP - Test Jerez, Day 2: A Rossi il miglior tempo finale
Anche ieri il clima e' stato un pò inclemente con i piloti della MotoGP impegnati a Jerez per gli ultimi test collettivi della stagione. Nella notte una leggera pioggerellina ha presentato in mattinata la pista ancora umida, cosa che non ha permesso di scendere in pista prima delle 14:00.
A parte per Rossi e Pedrosa che sono gli unici due piloti ad avere fatto meno cambiamenti rispetto alla stagione appena conclusa, si è cercato ancora di trovare una buona base su cui lavorare ma i miglioramenti si sono comunque visti per tutti.Lorenzo, Edwards e Toseland si sono detti complessivamente contenti del comportamento della M1 con le nuove coperture. Bene, in ordine di classifica, anche Elias, De Angelis e Hayden, che sta evidentemente cominciando a prendere confidenza con la Desmosedici così come un notevolissimo Kallio che si affaccia nella parte alta della classifica.
Molto lavoro da fare, invece, per Gibernau e Dovizioso probabilmente ancora un pò sperduti nel mare di regolazioni disponibili sui rispettivi proto.
MotoGP - Test Jerez, Classifica Day 2:
01. Valentino Rossi - Yamaha - 1'39"429 (54 giri)
02. Dani Pedrosa - Honda - 1'39"447 (47 giri)
03. Jorge Lorenzo - Yamaha - 1'40"426 (58 giri)
04. Toni Elias - Honda - 1'40"448 (56 giri)
05. Alex De Angelis - Honda - 1'40"486 (49 giri)
06. Nicky Hayden - Ducati - 1'40"486 (70 giri)
07. Mika Kallio - Ducati - 1'40"564 (54 giri)
08. Colin Edwards - Yamaha - 1'40"604 (39 giri)
09. James Toseland - Yamaha - 1'40"752 (51 giri)
10. Sete Gibernau - Ducati - 1'40"856 (48 giri)
11. Andrea Dovizioso - Honda - 1'40"966 (46 giri)
12. Niccolò Canepa - Ducati - 1'41"077 (48 giri)
13. Vittoriano Guareschi - Ducati - 1'42"906 (46 giri)
14. Yuki Takahashi - Honda - 1'42"918 (60 giri)
MotoGP - Rossi fa segnare il suo miglior tempo con la M1 2009
Le basse temperature non hanno permesso a Valentino Rossi grandi tempi nella prima giornata di test a Jerez, nonostante il Campione del Mondo stia continuando ad aumentare il suo feeling con la Yamaha M1 2009. L'italiano è sceso in pista solo nel pomeriggio di mercoledi, sfidando il freddo, per lavorare con la sua moto per circa tre ore. Secondo nella tabella dei tempi dietro a Dani Pedrosa, Rossi ha utilizzato sia la moto 2008, che il prototipo per il prossimo anno. La bella notizia non è stata data tanto dal suo tempo, quanto dal fatto che l'1´40.135 sia arrivato proprio con la nuova moto.
"Sono felice per questo primo giorno perchè la mia performance è stata buona fin dall'inizio e sono stato veloce tutto il giorno - ha dichiarato Rossi - Sfortunatamente faceva abbastanza freddo e c'erano solo tre ore per essere veloci, ma abbiamo fatto un buon lavoro in un cosi breve lasso di tempo. Abbiamo provato parecchie cose con la vecchia moto e abbiamo fatto dei miglioramenti; poi siamo passati alla moto nuova, con cui ho messo a segno il mio giro più veloce".
Rossi avrà ora meno gomme a disposizione rispetto allo scorso anno come conseguenza della monogomma, ma si è detto soddisfatto delle 8 gomme disponibili.
"Bridgestone ha portato buone gomme qui; non vedo grossi problemi con la nuove regole e sembra che stiano facendo un buon lavoro. L'asfalto è anche stato riasfaltato e questo ha fatto parecchia differenza; credo che qui saremo anche più veloci dello scorso anno".
MotoGP - Soddisfazione in casa Ducati dopo i test di Jerez
Nonostante siano state alla fine solo 2 mezze giornate di test, Nicky Hayden lavorando con la caparbietà ed il metodo che lo contraddistinguono ha migliorato notevolmente rispetto al primo giorno di prove a Jerez.A differenza del primo test di Valencia, dove provò per un solo giorno, qui ha potuto comprovare in pista le modifiche apportate dopo il "day 1" e i risultati si sono iniziati a vedere.Chiaro, siamo solo agli inizi e c'è ancora molto da fare ma soprattutto considerando che in questi 2 giorni non si è chiaramente cercato il tempone pare proprio che l'americano sia partito definitivamente con il piede giusto.
"Abbiamo fatto un bel miglioramento. E' stato importante poter girare con le stesse condizioni due giorni di seguito, perché a Valencia avevamo avuto un solo giorno di asciutto e non avevamo potuto verificare le modifiche che volevamo fare. Fin dalla prima uscita il mio feeling è stato migliore ed è positivo che abbiamo abbassato il tempo di mercoledì di più di un secondo e mezzo. Certo, ci manca ancora un secondo dai più veloci e so che l'ultimo secondo è quello più difficile da tirar via, ma il team lavora bene, io sono sempre più a mio agio con moto e gomme e posso andare in vacanza sereno. Mi ha fatto piacere che Casey abbia voluto essere presente ai test. E' stato utile parlare con lui e Filippo e penso che questo dimostri quanto ci tenga alla squadra e a far bene il prossimo anno! Infine buon "Giorno del Ringraziamento" a tutti in America!", ha dichiarato a fine giornata Nicky Hayden.
MotoGP - Test Phillip Island, Day 2: Fine dei test in Australia
Sono continuati anche ieri i test sulla pista australiana per Suzuki e Kawasaki.
Capirossi e Vermeulen hanno continuato l'affinamento delle novità telaistiche e di elettronica col fine di accumulare il maggior numero di km e di informazioni da passare ad Hamamatsu per definire la moto nuova. In Kawasaki pure hanno macinato un bel pò di giri.
Melandri ha provato il nuovo telaio sgrezzato il giorno prima da Jacque e i tempi in pista dicono che si è trovato abbastanza bene. Manca ancora un pò di feeling con l'anteriore che non soddisfa appieno le esigenze del pilota italiano, c'è di buono che pare ben definita la via a seguire.
Una innoqua scivoltata alla curva 4 non ha intaccato né il pilota né la moto che ha potuto essere rimessa in sesto per continuare le prove. La caviglia continua invece a dar fastidio ad Hopper che comunque non molla il manubrio e prosegue soprattutto con prove di assetto per adeguare la moto alle nuove monogomme. L'acqua caduta sul circuito nel tardo pomeriggio ha obbligato a concludere le prove un pò in anticipo rispetto al previsto ma i programmi sono stati tutto sommato rispettati.
MotoGP - Test Phillip Island, Classifica Day 2:
01. Loris Capirossi - Suzuki - 1'31"0
02. Chris Vermeulen - Suzuki - 1'31"2
03. Marco Melandri - Kawasaki - 1'31"8
04. Olivier Jacque - Kawasaki - 1'31"8
05. John Hopkins - Kawasaki - 1'32"5

LA VERA LANA

Santino Mollo è convinto di avere la sua allieva al top
L'ultimo lavoro il 13 novembre: duemila metri in 2.28.5 con le ultime due frazioni in 27.7 e 27.5
Mattina dello scorso 13 novembre. Ippodromo di Torino. Lana del Rio lavora svelta con Santo Mollo. Andrea Guzzinati segue con attenzione lo sviluppo del rotolo. Fine del doppio chilometro. Andrea si avvicina a Santino. “Com’è?“. Santino gli porge il cronometro. “Guarda tu stesso“. Raccontata così è una situazione schematica, difficile da capire. In realtà le cose sono molto semplici. Lana quel giorno ha fatto 2.28.5 i 2000 metri, con secondo chilometro in 1.10.5, e le due frazioni conclusive in 27.7 e 27.5. Il classico lavoro spaccacronometro. Che ha ovviamente esaltato Santino. E messo sul chi va là AGuzzi, suo rivale dichiarato in prospettiva Nastro Azzurro con Lisa America. Questo il fondamentale antefatto. Sabato finalmente si correrà il Derby, e non ci sarà più il tempo per le parole. La fatica, gli sbattimenti, le scelte di tutti questi mesi verranno riassunti in due minuti e mezzo. O vinci o perdi. Vie di mezzo non ce ne saranno. Lana del Rio ha dominato la stagione 2008 fino alla batteria del Derby. Quel giorno ha fallito. Santo Mollo si è preoccupato, ha pensato alle contromisure, poi lo sciopero ha fermato tutto, regalando al trainer calabrese, piemontese d’adozione, un mese e mezzo per riorganizzarsi al meglio. Un mese e mezzo, ci dice, particolarmente proficuo. «Ci sono state tante piccole ragioni per la brutta prestazione di fine settembre. Ma di fondo Lana del Rio era stanca, dopo mesi passati in prima linea, a vincere sempre. L’ho sentita strana in sgambatura e abulica in corsa. Non era lei. Questo slittamento di oltre un mese è stata una manna piovuta dal cielo. Lana del Rio ha messo su qualche chilo, il che per una cavalla nevrile come lei è un fatto raro. Fisicamente è perfetta, mentalmente anche. Il lavoro del 13 novembre è stato straordinario. Non solo per la misura, che aveva fatto già in altri lavori precedenti nel corso della sua carriera agonistica. Ma per le modalità, la voglia, l’azione, la perfezione meccanica. Quel giorno ho capito di avere di nuovo a che fare con la miglior Lana del Rio». E il cielo, come cantava Rino Gaetano, è diventato sempre più blu... «Diciamo che mi sono tranquillizzato. Ho rivisto la vera Lana del Rio, non quella sgualcita dell’eliminatoria. Ieri (mercoledì, ndr) l’ho lavorata per l’ultima volta, un normalissimo 2.45 con 29 ad arrivare. Ovviamente non serviva altra velocità, solamente una rifinitura. Che è stata perfetta. Non potevo avere risposte migliori. Lana è pronta per fare una gran corsa. Domani (ieri, ndr) mattina partirà per Roma in modo che possa fare un viaggio tranquillo, prendendo tutto il tempo necessario. Correrà per la prima volta senza ferri, manterrà invece le mezze balze». Sabato non ci sarà Lord Capar, e questa è una bella notizia. «Senza dubbio sì. Innanzitutto scaleremo una posizione, e tra il sei e il sette c’è una bella differenza. E poi non ci sarà quello che era considerato un partitore provetto, il rivale che non sarebbe stato possibile scavalcare al via. Io ho sempre pensato che Lana del Rio è superiore a Lord Capar, in ogni caso si tratta di un forfait che, egoisticamente, non può che farmi piacere». Pare di capire che hai dissolto ogni dubbio tattico. Domani si parte a tutta. «Credo proprio di si. Con Lord Capar in pista avrei avuto parecchie remore. Così no. So bene che anche Lisa America potrebbe provare a partire, ma sono convinto che Lana sia una scattista più naturale di Lisa, lei aggredisce lo stacco, per cui penso di poterla superare. Certo, non dovessi riuscirci saranno guai, o meglio saranno guai se si rimarrà allo scoperto, perchè l’eventuale seconda posizione alla corda non sarebbe poi male». Temi solo Lisa America? «A dire il vero non temo nessuno. Ma credo che Lisa sia la rivale più pericolosa. Senza dimenticare Light Kronos, che se dovesse trovare corsa mossa potrebbe risultare devastante allo speed. Immagino che Bellei sarà prontissimo a sfruttare eventuali lotte premature tra Lana e Lisa. Però come potenza Light a mio avviso è inferiore». Ultima domanda. Della condizione di Lana del Rio ci hai detto tutto. Santo Mollo invece come sta? La tripletta di martedì a Milano sembrerebbe un bell’indizio di... condizione smagliante. «Sono state tre vittorie importanti dopo un periodo di forma meno esplosivo rispetto a quest’estate. D’altronde il ritmo dei miei primi sei-sette mesi di 2008 era difficile da mantenere. Posso dirti che sono in piena forma, e più tranquillo rispetto a fine settembre. Non vedo l’ora che sia sabato per correre questo Derby, una corsa per la quale sto lavorando dall’inizio dell’anno. So da molto di avere una cavalla super. Ormai l’ha dimostrato vincendo quattro gruppi uno. Mi sembrerebbe una giusta conseguenza vincere anche nel giorno più importante». Come dargli torto?

VASCO: "LASCIARE LE DROGHE E' STATO DIFFICILE"

Milano - «Chi è Vasco Rossi? È un artista, un musicista che ha imparato a suonare uno strumento, la chitarra, che scrive canzoni e le canta, le canta per necessità perché se le avesse scritte, gli altri non le avrebbero cantate». Così si descrive per la prima volta a La Storia siamo noi Vasco Rossi, il più grande rocker italiano. Una lunga e inedita intervista nella quale si racconta: la sua vita, le sue esperienze, la sua famiglia. E infatti a parlare per la prima volta, la sua compagna da oltre 20 anni, Laura Schmidt e il figlio Luca.
Tra il 1979 e il 1980 escono molte sue canzoni, alcune delle quali diventeranno famosissime come Albachiara. Vasco Rossi: «Ho fatto un periodo negli anni Ottanta di anfetamina, cocaina, di tutto. Ne sono uscito, ci ho messo un bel po’, è stata durissima, perché uscire dalla dipendenza soprattutto dell’anfetamina è terribile». E allora come si può spiegare ai giovani che la vita normale ha già un tasso emotivo e di adrenalina alto senza bisogno di ricorre a sostanze alteranti? Vasco Rossi: «Facciamo prestissimo, basta che glielo diciamo perché è vero! Mi diceva un mio professore di italiano “ricordatevi che la cosa più difficile è essere normali, non essere dei fenomeni”. Poi è chiaro che la vita è già piena, senza bisogno di usare delle sostanze».
Quando ti vedono 70.000 persone come a San Siro come fai a andare a casa e metterti a dormire? «Mi faccio una doccia fredda e soprattutto faccio fatica a mettermi a dormire. Un po’ di delirio di onnipotenza c’è dopo. Quando io canto una canzone sul palco non è che la canto o la interpreto, io la vivo - spiega Vasco - a quel punto lì sento che arriva questa emozione perché poi mi ritorna, come un’ondata enorme, ed è lì che poi alla fine viene il delirio di onnipotenza in effetti. Infatti dopo, la notte, continuo di tutto, non dico quello che faccio perché è meglio che non lo diciamo in tv, però poi mi pento a volte di quello che ho fatto nel momento del delirio di onnipotenza». E a chi fra i suoi amici gli rimprovera di andare via, a volte, senza salutare, Vasco dice: «A me piace andar via senza dir niente perché quando saluto mi viene una tristezza pazzesca. Chiedo scusa e comprensione per questa faccenda. Volete mettermi tristezza? No! Voi volete darmi gioia no? Quindi, ecco lasciate che non vi saluti quando vado via, tanto torno».

giovedì 27 novembre 2008

PRAGMATICO E REALISTA

Lunedì si scioglieranno le riserve sulla futura amministrazione Democratica, i nomi non saranno più indiscrezioni giornalistiche, Obama renderà ufficiale chi siederà al tavolo della politica estera e a quello della difesa, e se saranno confermati coloro che nelle ultime settimane sono stati caldeggiati dai più autorevoli quotidiani ed esperti d'oltre oceano, assisteremo ad una composizione che assomiglierà di più ad un'amministrazione Repubblicana che ad una Democratica, in barba alle feste di "veltroniana" memoria.
Il pragmatismo della possibile nuova amministrazione cancellerà per sempre la politica estera pacifista dell'era post vietnamita - messa in parte in archivo già nell'era clintoniana - deludendo la sinistra europea che aveva festeggiato come un'eroe l'avvento di Obama.
La scelta di Hillary Clinton permetterà ai liberal clintoniani di sedersi simbolicamente al dipartimento di stato, mentre i realisti, massacrati nel conflitto interno dell'amministrazione Bush, saranno i veri vincitori della controversia ideologica del dopo attacco alle torri gemelle.
Daltronde un realista come Henry Kissinger non ha nascosto il suo apprezzamento nella probabile scelta di Hillary, che altrettanto probabilmente sarà affiancata da James B. Steinberg, Vice Presidente alla Casa Bianca del National Security Advisor nel periodo 1997-2001 sotto l'amministrazione Clinton, anch'esso ideologo dell'internazionalismo liberal e favorevole alla guerra in Iraq.
L'ala democratica non avrà posizioni di rilievo, Susan Elizabeth Rice, Assistente Segretario di Stato per gli affari africani durante la seconda amministrazione Clinton, non avrà né il posto da consigliere per la Sicurezza, né al Dipartimento di Stato, ma secondo alcune fonti vicino al partito democratico sembra destinata a ricoprire il ruolo di ambasciatrice americana all'Onu.
Mentre il laureato in giurisprudenza a Newark, Joe Biden, altro liberal, con l'elezione di Obama sarà il prossimo vicepresidente degli Stati Uniti.
Ma saranno le nomine alla sicurezza nazionale che faranno inevitabilmente pendere la bilancia verso destra, in quei luoghi dove si decide, dove si guarderà inevitabilmente alla forza e agli interessi vedremo un'amministrazione di stampo nixoniana piuttosto che carteriana.
L'ex consigliere per la Sicurezza nazionale del partito Repubblicano, Brent Scowcroft, contrario alla guerra in Iraq, ha "rapito" Obama, che spesso si consulta con lo stesso non avendo mai nascosto l'ammirazione per l'amministrazione estera di George W. Bush senior, ma la scelta di Rahm Israel Emmanuel a capo dello staff della Casa Bianca - piaciuta al 93% dei dirigenti del Partito repubblicano secondo il National Journal - creerà difficoltà alla linea che sostiene il dialogo con i nemici dell’America sulla questione israeliana.
Bob Gates con molta probabilità resterà al Pentagono, vuoi perchè Obama sta cercando di portare nell'amministrazione qualche seguace di Scowcroft, vuoi perchè l’invio in Iraq di trentamila soldati - dottrina Petraeus - ebbe successo, nonostante, al tempo, lo stesso eletto si oppose. La nomina del vice dovrebbe ricadere su Richard Danzig, segretario della Marina militare degli Stati Uniti dal novembre 1998 al gennaio 2001.
La nomina più incerta al momento sembra essere quella sulle questioni di sicurezza nazionale - Cia - , dall'iniziale scelta di Obama su John Brennan, repubblicano, che aveva fatto scatenare l'ira della sinistra antibushiana, ora sembra che il nome "caldo" sia quello di Dennis Blair, elaboratore della strategia antiterrorismo contro i gruppi islamici del sud-est asiatico nell'amministrazione Bush.
Paradossalmente i due pilastri della politica militare e di difesa potrebbero essere gli stessi che in caso di vittoria di John McCain sarebbero stati ugualmente nominati, detto di Bob Gates al Pentagono, per il ruolo di consigliere per la Sicurezza nazionale Obama avrebbe scelto James Jones, altro non appartenente al partito democratico e consigliere informale di Hillary Clinton. Generale dei marine, ex comandante supremo delle forze Nato in Europa, inviato in medio oriente di Condoleezza Rice è convinto del non ritiro delle truppe americane in Iraq - "sarebbe contrario ai nostri interessi nazionali" - e che al Qaeda vada combattuta in Afghanistan.
Ora il compito più gravoso di Obama sarà quello di accontentare quella parte di America che si sente tradita dalla non concessione all’ala progressista e pacifista che lo ha eletto alla Casa Bianca.
La stampa a stelle e strisce daltronde non è stata per nulla morbida: il NYT ha tuonato in prima pagina - "Obama sta programmando di governare dal centro destra del suo partito" - e ancora - "le scelte di Obama sembrano prefigurare una politica estera non di centrodestra rispetto al Partito democratico, ma di destra rispetto al paese".
Il tema scottante è quello di Guantanamo, da chiudere secondo l'eletto, ma di difficile attuazione per i problemi logistici ai quali si andrà incontro vista la detenzione di parecchi terroristi.
Greg Craig sarà il nuovo consigliere legale della Casa Bianca, Eric Holder il nuovo Attorney General, altri due clintoniani ai quali sarà affidato il compito di riscrivere le regole giuridiche della guerra al terrorismo ed entrambi dovranno fare le giuste scelte sui detenuti.
Con questi probabili scenari la figura di Obama, troppo frettolosamente giudicata, appare sempre più propensa al pragmatismo, e nonostante l'opposizione alla guerra in Iraq durante la campagna elettorale non lo si può considerare un pacifista.
La prima conferenza stampa sul tema medio orientale è stata fin troppo esplicita, e la sua posizione sull'Iraq è cambiata notevolmente, ha votato a favore del programma spionistico, garantendo l’immunità alle società di telecomunicazioni che hanno collaborato con la Casa Bianca, quando precedentemente voleva di fatto cancellarlo.
Quel "Yes we can" è stato uno slogan efficacissimo per guardare al futuro e per dare agli elettori e a chi ha guardato da ogni angolo di mondo le elezioni del 4 novembre la speranza di un vero cambiamento, oggi invece guarda semplicemente al passato, e come abbiamo più voltre scritto le radici americane non si possono né cambiare né stravolgere.
E non deve nemmeno stupire, l'eletto non si è mai nascosto e ha sempre parlato a favore degli interessi statunitensi, della sicurezza della nazione, del pragmatismo, e le scelte che con molta probabilità farà tra qualche giorno saranno la conseguenza logica di quel cambiamento che più di un motivo faceva pensare che non sarebbe stato a sinistra, nonostante feste e celebrazioni in tutto il mondo, ma a destra, come realisticamente accadrà.
di Cirdan

SIMPATIZZANTI E SEGUACI


Dopo la strage di Mumbai Obama studi la storia dell'India e capirà che i Democratici sbagliano tutto sul terrorismo islamico (L'Occidentale del 27 novembre)
Dopo l’orrenda strage di Mumbai, Barack Obama farebbe beme a prendere in mano un libro di storia dell’India, perché vi troverebbe non solo la ragione antica di ben 500 anni del comportamento barbaro dei terroristi islamici, ma anche la smentita più netta e precisa delle analisi sul terrorismo islamico dei suoi consiglieri, in primis di Madeleine Albright.
Secondo questa scuola di pensiero, condivisa anche dalla sinistra europea e dall’intero universo del politically correct, il terrorismo islamico avrebbe essenzialmente un carattere “reattivo”. In Palestina sarebbe essenzialmente sorto quale reazione agli errori di Israele (in primis il rifiuto sinora di ritirarsi dai territori occupati nel 1967); in generale nei paesi arabi o musulmani, sarebbe la conseguenza dei disastri provocati dal colonialismo e dal più recente imperialismo. Questa demenziale tesi è largamente presente anche nel mondo culturale e universitario americano anche a seguito della sua codificazione nella teoria dell’”Orientalismo” elaborata da Edward W. Said.
Se solo si conoscesse all’ingrosso la storia dell’India, se la si fosse minimamente elaborata, tutti questi castelli d’analisi crollerebbero di botto, perché dietro i mitra che sparano raffiche contro incolpevoli passeggeri nella stazione di Mumbai, trucidando donne e bambini, così come dietro gli attentati ai treni, dietro alle mattanze di terroristi islamici che hanno fatto in tre anni dal 2004 al 2007, ben 3.347 morti, più che in Afganistan (e oggi siamo quasi a 4.000), ci sono le stesse dinamiche che muovevano i machete nel 1948, quando Ghandi rischiò la morte per opporsi ad una divisione sanguinosa del Dominion indiano in due Stati (India e Pakistan) e a una guerra di religione che provocò un milione di morti. Dinamiche che nulla hanno a che fare -anzi- con il retaggio coloniale e con la violenza imperialista (che pure vi fu, e fu feroce).
I mujaheddin che hanno seminato morte a Mumbai hanno un modello storico luminoso, agiscono per restaurare un Stato islamico che ha governato sull’India per due secoli, imitano le gesta di un grande leader musulmano lo shah Aurangzeb, che regnò dal 1658 sino al 1707, distruggendo con violenza il clima di tolleranza e di apertura alle altre fedi del regno di suo padre Shah Jahn (che lasciò nelle forme del Taj Mahl il senso universale del suo Stato) imponendo una feroce e dogmatica applicazione della shari’a, imponendo agli induisti e ai buddisti il pagamento della jiza, la tassa di sottomissione, vietando pena la morte i matrimoni misti e conducendo infine lunghe guerre contro i principi indù Marata (Maratti). La ferocia egemonica dell’Islam indiano, di poco precedente a quella del Islam wahabita arabo (sicuramente influenzato da Aurangzeb), è dunque tutta e solo interna alla storia dell’india precoloniale, con un lascito di violenze, sopraffazioni, e morti che è impressionante.
Se Barack Obama si occupasse di quella storia dell’Islam indiano così determinante nel mondo musulmano (i re Moghul ovviamente influenzarono tutto l’Islam asiatico, Afghanistan, Indonesia e Malesia incluse), se scoprisse che quella è stata la vicenda maggioritaria del mondo musulmano e che quella legata all’Impero Ottomano -soprattutto dal punto di vista culturale e teologico- è stata minoritaria, scoprirebbe poi che la verità del meccanismo “reattivo” fu esattamente opposta.
Inutile ricordare il patrimonio infame di violenza, espropriazione, furto e altre bestialità che è legato all’epoca coloniale europea. Ma è invece utile ricordare l’altro verso della medaglia, sempre sottaciuto, mai analizzato: il ruolo fondamentale di stimolo che la cultura dei colonizzatori ha avuto sull’evoluzione della cultura dei colonizzati. Barack Obama, di nuovo, si dovrebbe studiare la storia dell’India e scoprirebbe allora innanzitutto che nei due secoli di dominazione inglese, il conflitto islamo-induista così esplosivo nel secolo precedente, fu tenuto sotto controllo, salvo esplodere in maniera devastante solo nel momento in cui gli inglesi riconsegnarono l’India agli indiani.
Scoprirebbe infine che proprio la contaminazione positiva con la cultura dei dominatori inglesi ha permesso la formazione di èlites sia induiste che musulmane (centro, naturalmente, della rivolta contro gli inglesi stessi), che hanno saputo costruire la eccezionale democrazia indiana solo e unicamente perché hanno mediato le loro radici con gli stimoli della cultura europea. La figura eclettica del modernista Mahatma Ghandi e soprattutto di quel grande leader che fu Pandit Nehru, ne sono testimonianza indiscutibe. Obama potrebbe anche scoprire che solo e unicamente l’influenza inglese ha fatto sì che in un mondo musulmano culturalmente agonizzante e piatto grandi figure di modernizzatori come Sayyid Ahmad Khan, agli inizi dell’ottocento, fondassero grandi istituzioni universitarie come il Muhammedan Anglo-Oriental College, che ha forgiato tutta la classe dirigente islamica dell’India sino al 1948, proprio riscoprendo -grazie al colonialismo inglese, per una straordinaria eterogenesi dei fini- il pensiero aristotelico di quel Averroè, che tutto il pensiero islamico arabo-ottomano ha sempre spregiato.
Infine, Obama si potrebbe rendere conto della miopia delle sua consigliera Madeleine Albright e comprendere infine che al Qaida non è una organizzazione verticistica di terroristi, ma solo il nome simbolo di una visione feroce del mondo che ha milioni di simpatizzanti nel mondo e decine e decine di migliaia di seguaci.

HEZBOLLAH PRONTO A UNA NUOVA GUERRA

La missione Unifil dimostra ancora la sua impotenza
Mentre l’Onu si appresta discutere un assurdo rapporto in cui si sostiene che “La missione Unifil ha aperto nuove prospettive di pace tra Israele e il Libano”, da parte di molte Ong israeliane in questi giorni sta arrivando un allarme di segno opposto: gli Hezbollah quattro giorni orsono avrebbero svolto le prove generali di un futuro attacco allo Stato ebraico in una gigantesca esercitazione militare condotta giusto a Sud del fiume Litani. Ovviamente sotto gli occhi dei nostri soldati che rimangono in Libano, non si sa bene a fare cosa. Una conferma indiretta alla flagrante violazione della risoluzione 1701 è venuta anche dalla tv Al Arabyya. Secondo cui il 22 Novembre, gli Hezbollah hanno condotto un’esercitazione a Nord ed a Sud del fiume Litani. Un reporter di Al-Arabiya ha detto che non ci sono stati spari durante l’esercitazione e che il suo scopo era quello di fare pratica sul terreno montuoso del Libano. E’ da segnalare però che l’unità d’informazione di Hezbollah non ha risposto alle domande dei media arabi riguardo i veri scopi dell’esercitazione. Intanto proprio ieri il quotidiano al Hayat ha pubblicato un rapporto dell’intelligence israeliana sulle reali forze militari di Hezbollah: missili a lungo raggio Zelzal calibro 600 millimetri, di fabbricazione iraniana e con una gittata di 250 chilometri, che possono essere lanciati da piattaforme in movimento. I razzi si troverebbero nascosti nella Valle della Beqaa e nelle regioni vicine al fiume Litani, nel Sud del Paese dei Cedri. Hezbollah potrebbe contare anche su missili a medio raggio, Fajr-3 e Fajr-5, di fabbricazione siriana e calibro di 220 e 302 millimetri. Inoltre, il movimento sciita avrebbe nel suo arsenale razzi anti-nave C-802, con una gittata di 120 chilometri.
Il movimento sciita avrebbe anche missili a corto raggio nascosti nelle regioni a Sud del Litani, dove si trova dispiegata l’Unifil, la forza delle Nazioni Unite in Libano. Infine nella Striscia di Gaza, i miliziani del Partito di Dio potrebbero contare su razzi BM-21 Grad, con raggio di 20,5 chilometri e calibro 122 millimetri, oltre ai Qassam, con gittata di 18 chilometri e calibro tra i 90 e i 170 millimetri.Di sicuro dopo la seconda guerra del Libano, gli Hezbollah fanno regolarmente esercitazioni ed addestramento militare nel sud del Libano. Hanno fatto due grandi esercitazioni nell’ultimo anno: una grande esercitazione dell’unità di resistenza libanese a novembre 2007 e un’altra esercitazione di Hezbollah si è svolta nel maggio 2008, per l’anniversario del ritiro dell’esercito israeliano dal Libano. Sia come sia, proprio da Israele ieri è arrivato un grido di dolore rivolto a tutto il mondo occidentale perché si prenda coscienza che l’atmosfera a Beirut ormai è da preparativi per una ulteriore azione di guerra da parte dei mercenari libanesi dell’Iran. Ci si può solo consolare con una buona notizia, sempre a proposito degli Hezbollah e della loro propaganda, che viene dal cuore dall’Europa. Più precisamente dalla Germania in cui è stata messa al bando la tv “Al Manar” (il faro) per il tono della propaganda antisemita diffusa in lingua araba in tutto il mondo via satellite. Forse anche nel Vecchio Continente qualcuno non è affatto convinto che in Libano le cose stiano migliorando, come invece sostiene il segretario Onu Ban Ki-moon, dopo l’invio del contingente militare di interposizione nell’agosto di due anni fa.

mercoledì 26 novembre 2008

IL PROCESSO CHE NON CI SARA'

Fabio Napoleone, Nicola Piacente e Stefano Civardi hanno inoltrato al gup Mariolina Panasiti la richiesta di mandare a giudizio Giuliano Tavaroli, ex capo della security di Telecom, e altre 33 persone di Telecom e Pirelli nell'ambito dell'inchiesta sui dossier illegali.
Quattro mesi dopo la conclusione dell’inchiesta penale, terminata lì dove era iniziata, sono giunte le richieste di rinvio a giudizio per trentaquattro indagati, ai quali si contestano i reati per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali, la rivelazione di notizie coperte dal segreto d'ufficio e dalla privacy o concernenti la sicurezza dello Stato, accesso abusivo al sistema informatico, intercettazioni telematiche, appropriazione indebita e corruzione internazionale.
In base alla legge 231 del 2001, il decreto legislativo che disciplina la responsabilità amministrativa delle società, sono state iscritte nel registro degli indagati anche Telecom e Pirelli.
Dagli atti si evince che le due società non hanno adottato un modello organizzativo al fine di prevenire la commissione di reati fino al maggio 2003. E dal momento in cui lo hanno adottato non lo hanno efficacemente attuato e nemmeno hanno adeguatamente vigilato sulla sua osservanza, rendendo così possibile che Tavaroli commettesse nell'interesse della società diversi reati
Dunque secondo la procura il gruppo dedito allo spionaggio agiva nell’interesse della società, quello che è da stabilire è se l’interesse era dedito ai vertici e se su loro mandato, e poco importa se agli atti le due società sono state citate in giudizio per la mancata vigilanza come sopraccitato, visto che le stesse si costituiranno come parti lese per il lato relativo alla fatturazione di servizi non richiesti.
Secondo alcune indiscrezioni diffuse dai giornali, gli imputati e le due società, starebbero trattando con i pm il patteggiamento.
L'ex brigadiere dell'antiterrorismo dei carabinieri Giuliano Tavaroli, attraverso i suoi legali, nelle ultime settimane avrebbe trovato un accordo con i pm milanesi per individuare una pena congrua: cinque anni di carcere, e vista la detenzione già scontata di un anno, altri tre potrebbero essergli condonati grazie all'indulto, evitando di fatto, visti i cinque anni come massima pena in caso di patteggiamento, il carcere.
Con identica strategia dovrebbero muoversi molti degli indagati, fatta eccezione per pochi, tra cui Marco Mancini, il numero tre del Sismi, che ha sempre respinto l'accusa di aver passato notizie riservate del Sismi alla sicurezza Telecom in cambio di denaro, e Giampaolo Spinelli, ex capocentro Cia a Mogadiscio.
Pirelli e Telecom invece avrebbero proposto un risarcimento alle migliaia di persone dossierate.
Entrambe le società, con un patteggiamento di circa un milione di euro, si libererebbero dall'accusa di non aver vigilato sui propri dipendenti, la legge 231.
L'udienza preliminare dovrebbe aprirsi tra un paio di mesi e non è detto che sia sede anche di alcuni interrogatori resi in forma di incidente probatorio, e seguita da un’altra udienza in cui il gip Giuseppe Gennari dovrà decidere la distruzione dei dossier acquisiti illecitamente, nel rispetto della legge approvata due anni fa con l'accordo di tutte le forze politiche.
L’illogicità della giustizia italiana è un problema che non tocca solo il caso Telecom, e se il giudice dell’indagine preliminare aveva denunciato la stortura dell’abbozzo sui vertici delle due società - infelice supporre che loro non sapessero - non si può far finta che non esistano problemi strutturali.
Attenderemo un processo che, grazie ai patteggiamenti e salvo colpi di scena, si preannuncia rapido, ammesso che un processo si faccia.
di Cirdan
scritto con la collaborazione di Kaos

lunedì 24 novembre 2008

SWIFTLY AND BOLDLY


Agire con coraggio e rapidamente, per affrontare una crisi economica di proporzioni storiche con un pacchetto aggressivo che stimoli l'intera economia statunitense.
Saranno queste le basi da cui dovranno partire gli uomini nominati da Barack Obama per guidare l'economia degli Stati Uniti.
Il Presidente della Federal Reserve, Tim Geithner, sarà nominato in sostituzione di Henry Paulson al Dipartimento del Tesoro, alla guida del Consiglio nazionale per l'economia alla Casa Bianca sarà nominato Larry Summers , mentre l'economista Christina Romer guiderà il Consiglio dei consulenti economici e Melody Barnes sarà il direttore del Consiglio di politica interna.
La squadra dovrà iniziare a lavorare immediatamente sulle proposte per creare i 2,5 milioni di posti di lavoro, prevenire e aiutare il settore auto in difficoltà, e prima che la situazione economica possa peggiorare avviare un piano per raggiungere il pieno recupero del settore bancario.
Obama ha dichiarato che non si farà fallire il settore auto, al contempo ha aggiunto che non ci saranno nemmeno assegni in bianco, soprattutto dopo la mancata presenza di un programma di salvataggio proprio da parte dei maggiori esponenti della maggiori case automobilistiche statunitensi.
Il neo presidente si è detto sorpreso per l'atteggiamento delle tre grandi case automobilistiche americane, nonostante l'appello della scorsa settimana da parte del Congresso.
Il piano economico, relazzionato dai collaboratori di Obama, varierà dai 500 ai 700 miliardi di dollari, da iniettare nell'intero sistema, le banche in crisi avranno quasi sicuramente aiuti pubblici, per non ripetere l'errore commesso con Lehman Brothers.
Il 2009 sarà un anno di piena recessione per gli Stati Uniti e secondo il "The Wall Street Journal", tutti questi programmi saranno di difficile attuazione prima del 20 gennaio, giorno in cui la Presidenza vincente del 4 novembre si insedierà alla Casa Bianca, dal momento che il presidente George W. Bush ha detto che si opporrà ai nuovi grandi piani di spesa prima del termine della sua amministrazione.
Anche il New York Time ha scritto che questa situazione di stallo potrebbe risultare pericolosa.
Al momento l'amministrazione repubblicana sembra daccordo sul piano di recupero di Citygroup, contribuendo ad assorbire centinaia di miliardi di dollari di titoli tossici con l'iniezione di capitale fresco nelle casse del gigante finanziario.
Le stime parlano di 306 miliardi di dollari di garanzia e di 20 miliardi immediati nel capitale sociale. L'accordo segna una nuova fase, con la speranza che gli sforzi del governo riescano a stabilizzare le banche e rilanciare il valore delle imprese. Dopo aver iniettato quasi 300 miliardi di dollari nei capitali delle istituzioni finanziarie, i funzionari federali adesso sembrano essere disposti ad aiutare anche chi si è caricato di titoli tossici, aiuti che dovranno essere mirati dallo studio specifico di istituzioni preposte alla crisi.
Oggi il Presidente George W. Bush ha dichiarato che ci potrebbero essere ulteriori decisioni per il salvataggio di altre banche che versano nella medesima situazione di Citigroup, e dopo essersi consultato, sui possibili salvataggi degli istituti di credito, con il neo Presidente Obama, ha dichiarato: "C'è una stretta cooperazione tra le due amministrazioni".
Se il piano di salvataggio del governo sarà un successo potrebbe contribuire a portare stabilità per l'intero sistema finanziario, ma se questo non accadesse, l'attuale crisi potrebbe diventare addirittura più profonda, e i dubbi sul futuro aumenterebbero pericolosamente.
di Cirdan

domenica 23 novembre 2008

COSTUMI POLITICI

Mancano due mesi all'insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama, e anche se ufficialmente il neo presidente a stelle e strisce non ha nominato nessun membro del suo "gabinetto", in via informale si sta pianificando quello che potrebbe essere il suo staff.
Il New York Times da per certi, sulle possibili nomine, Eric Holder (Attorney General), Tom Daschle (segretario alla Sanità) e Janet Napolitano (Sicurezza nazionale).
Eric Holder, secondo il quotidiano newyorkese, si allinea perfettamente alle idee di governo di Barak Obama, così come Tom Daschle, senatore del Sud Dakota, che ha accettato l'offerta di Obama per essere eletto Segretario alla sanità. Dopo l'importante appoggio, nello stato dell'Arizona, dato dalla Governatrice Janet Napolitano durante la campagna presidenziale di Obama, la nomina alla Sicurezza nazionale sembra oramai scontata.
Scelte considerate di alto profilo da parecchi commentatori conservatori, tra cui David Brooks dello stesso NYT, al contrario delle critiche piovute dalle ali estreme dei due partiti.
Ma la notizia che sta dominando in queste ore la stampa americana è sulla possibile nomina di Hillary Clinton al Dipartimento di stato. Nella giornata di venerdì è trapelata la notizia che la Clinton abbia deciso di abbandonare il suo posto al Senato ed accettare la posizione al Dipartimento di Stato.
In parole povere Mrs. Clinton potrebbe guidare gli affari diplomatici americani per conto di Obama.
Ora bisognerà vedere, la Clinton in queste ore ha gettato acqua sul fuoco, dichiarando che è tutto da decidere, come si comporterà, se tale indiscrezione andasse in porto, ad affrontare le future sfide che attendono l'America sulle questioni mediorientali.
In campagna elettorale, il neo presidente e la sua sfidante, avevano idee molto diverse: Obama diceva che avrebbe incontrato senza precondizioni i nemici degli Stati Uniti, dall’Iran a Cuba, mentre Hillary sosteneva che quella era una posizione ingenua e irresponsabile.
Di conseguenza mi domando: la Clinton come deve comportarsi, se davvero dovesse andare al Dipartimento di Stato, sulle trattative di negoziazione da lei stessa considerate ingenue e irresponsabili?
E se Dennis Ross, l’esperto diplomatico accusatore di Yasser Arafat per aver fatto saltare l’accordo di pace con gli israeliani, dovesse occuparsi del dossier arabo-israeliano?
Come avevamo precedente scritto, le scelte di Obama per il futuro americano sembrano, da queste prime possibili nomine, smentire coloro che avevano celebrato l'avvento del cambiamento, daltronde oltre oceano i primi dissensi arrivano proprio, sui giornali, dall’ala sinistra della sua coalizione.
Il collegamento è presto fatto: l'autorizzazione a George W. Bush, per usare il pugno duro contro Saddam Hussein, arrivò dalla votazione di coloro che stanno prendendo forma nella prossima amministrazione americana, da Joe Biden a Hillary Clinton, da Rahm Emanuel a Tom Daschle.
Se a questo si aggiunge la dichiarazione fatta da Obama nella prima conferenza stampa da neo presidente eletto, insieme al vice Joe Biden, sull'inaccetabile dotazione di un'arma nucleare da parte dell'Iran, aggiungendo che il sostegno di Teheran al terrorismo deve terminare, tutto sembra tornare.
La politica americana non si può cambiare, e la tradizione, quella patriottica, orgogliosa e individualista, ha sempre portato avanti, con i rispettivi presidenti, una politica guerrafondaia, dalla Corea passando per il Vietnam fino a quella con l’Iraq, e queste futuribili nomine sembrano portare avanti, inevitabilmente, quel percorso.
di Cirdan

venerdì 21 novembre 2008

L'ESTATE CHE NON SI E' CAPITA ...O FORSE SI!

Era il 14 novembre del 1909 quando scesero in capo per la prima volta l’una contro l’altra: vinse la Juventus con un gol per tempo di Ernesto Borel. Al Meazza di San Siro la prima gara, invece, fu vinta dai neroazzurri, sempre nella stagione 1909/1910, con il risultato di 1-0; da allora, alla “scala del calcio”, si sono disputate 104 partite: 45 le vittorie interiste, 27 quelle juventine, mentre i pareggi sono stati 32.
Nella storia del campionato italiano raramente le due società hanno vissuto il brivido di un’entusiasmante testa a testa, vuoi perché nei primi trent’anni del torneo a dominare erano le squadre del nord-ovest (Genoa, Pro Vercelli e Casale) vuoi perché dall’avvento degli Agnelli, nel ventennio 1930-1950, furono ben sette i titoli tricolore per i bianconeri, contro i miseri due dei meneghini.
Furono gli anni sessanta il periodo di maggiore gloria per la seconda squadra di Milano, con le vittorie in campo nazionale ed internazionale.
Ci volle addirittura un “mago” per ridare lustro alla società: Helenio Herrera, il tecnico scoperto da Angelo Moratti.

E LA DEMOCRAZIA DOVE LA METTIAMO?


"Sono sereno vado avanti a lavorare e credo che in questo momento l'unica scelta responsabile per il ruolo che ricopro è la consegna del silenzio". Con questa affermazione il presidente della commissione Vigilanza Rai, Riccardo Villari, ha risposto, dopo una giornata all'insegna della non democrazia, ai media nel cortile interno della Camera dei Deputati.
Sul fabbisogno di un presidente della Commissione di Vigilanza Rai non mi esprimo, lascio ad altri il compito strettamente tecnico del ruolo, ma sul baccano che si è creato attorno a questa vicenda trovo antidemocratica la frase che ha espresso il segretario del Pd Veltroni: "Se non si dimette non è più un senatore del Partito democratico".
E il Pd lo ha espulso veramente dal gruppo al Senato, per la mancata dimissione dall’organo bicamerale di controllo della Rai, facendo saltare di fatto il posto al senatore, sempre del Pd, Sergio Zavoli.
Da comune cittadino mi sorge, come credo ai più, una domanda: ma perché questo nome non è uscito prima?
Partiamo da un principio: il valore delle istituzioni precede il peso delle segreterie politiche.
Questo senso di responsabilità ha mandato su tutte le furie il Partito Democratico, e dalla voce del suo segretario nazionale è uscita questa frase: "Villari è un usurpatore, i nuovi accordi con l’Idv e con il Pdl vengono prima della sacrosanta esigenza istituzionale di garantire il funzionamento della Vigilanza, quindi occorre annullare il voto che ha portato Villari alla presidenza". E la democrazia dove la mettiamo?
Giorgio Merlo, Pd, vicepresidente della Commissione parlamentare di Vigilanza Rai, non si è risparmiato: "Tutti capiscono, infatti, che Villari non si dimette perché è un topo che da tutta la vita aspetta un pezzo di formaggio. - e ha rincarato la dose scrivendo - La sua utopia politica è la moglie ubriaca e la botte piena... Nel mondo dei Villari i cristiani passavano all’islam in cambio di un lavoro nelle navi pirata e gli ebrei diventavano cattolici solo per il piacere di inquisire gli ex compagni di fede... Villari può esercitarsi nel finto tradimento, nel bitradimento e nel tradimento del tradimento".
E ribadisco, e la democrazia?
Riprendendo uno splendido editoriale di Vittorio Sgarbi apparso oggi su "Il Giornale", dico anch'io che basterebbe questo, per chi non ha fatto altro che ricevere il voto dei colleghi, per indurmi a suggerire a Villari in risposta a tanta saccenza e a tanta rabbia di non dimettersi.
Lo hanno votato, è stato eletto democraticamente da una scelta non stabilita dalle segreterie, ed ora tutti a pronunciare insulti gratuiti per ciò che non ha fatto e per ciò che non ha chiesto.
Nell'editoriale Vittorio Sgarbi domanda: "Qualcuno della maggioranza e dell’opposizione potrà dire che un eletto in Parlamento, un parlamentare come gli altri, non è degno di essere presidente della Vigilanza?" E risponde con un altro quesito: "E come sono, e chi sono i presidenti delle altre commissioni?"
La conclusione è unica e condivisibile: " Villari deve resistere".
Si, resistere e non dimettersi, per rispetto delle regole e della democrazia.
di Cirdan

CSM, 50 ANNI DI FAZIOSISMO


Potere giudiziario
Le origini di un organo di autogoverno
Fu Scalfaro a plasmare la sua forma L’equilibrio è saltato negli anni 90
Gli scorsi giorni siamo stati affogati nella retorica celebrativa dei 50 anni dall’istituzione del Csm. Ovviamente è giusto che il Capo dello Stato che ne è costituzionalmente il presidente abbia detto quello che ha detto. Ma è sotto gli occhi di tutti che la storia di questo organismo di rilevanza costituzionale è una vicenda fatta per lo più di fallimenti, di intrighi di palazzo, di logica di politicizzazione della magistratura e di giustizia domestica. Quando i padri costituenti vararono la nostra Magna Carta ci furono tre punti lasciati volutamente in sospeso data la loro delicatezza. Tre temi scottanti che produssero provvisoriamente altrettanti vuoti che in seguito sarebbero stati colmati, tutti tranne uno, da successive leggi ordinarie e costituzionali. Il primo era la Corte costituzionale, che nascerà solo nel 1953, con la legge costituzionale numero 87; il secondo il Csm, che nascerà nel 1958 con la legge 44; il terzo e ultimo vuoto quello concernente il sindacato e la sua trasparenza amministrativa, regolata dall’articolo 39 della Costituzione, che invece non ha ancora trovato alcun attuazione. Pochi lo sanno, ma il Csm così come lo abbiamo conosciuto deve molto a un ex capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, che non ha brillato nel suo settennato per imparzialità con una buona metà della popolazione italiana, quella che si riconosceva con il centro-destra. Fu la sua proposta di mediazione infatti a prevalere tra chi voleva un consiglio composto solo da magistrati e chi soprattutto da politici. Lui salomonicamente propose l’attuale composizione: un terzo di nomina politica e parlamentare, due terzi in toga, sia pure in parte scelta dal capo dello Stato stesso.
L’ex capo dello Stato Giovanni Leone, fine giurista, all’epoca disse che la magistratura doveva essere “un ordine per essere a sua volta autogovernato, cioè indipendente da ogni altro potere” e che il Csm doveva assicurare l’indipendenza dei suoi componenti. Se ne individuarono i compiti che il costituente onorevole Meuccio Ruini del Gruppo Misto pomposamente definì “i quattro chiodi”: nomine, promozioni, disciplina, trasferimenti. Nessuno si sarebbe immaginato che oggi, 50 anni dopo, a questi chiodi se ne sono aggiunti almeno altri due: censure preventive ai governi pro tempore sulla politica giudiziaria, difesa corporativa di tutta la casta in toga magari con un’applicazione domestica della giustizia disciplinare. Lungamente si discusse della sua composizione. Si fronteggiarono due tesi. L’una, ispirata dai magistrati e da quanti avevano a cuore una rigida interpretazione della divisione dei poteri (ad esempio gli onorevoli Pasquale Cortese, Aldo Bozzi, Francesco Maria Dominedò, Giovanni Perlingieri) pretendeva che il Csm fosse composto soltanto di magistrati. Motivo ufficiale? Solo in questo modo si sarebbe evitato “il rischio di contaminazioni” (onorevole Dominedò) e quello di far “penetrare la politica nelle decisioni singole; di far giungere indebite pressioni ed ingerenze professionali agli organi giudiziari” (onorevole Edmondo Caccuri, Dc ex magistrato). Motivo ufficioso? Già si prefigurava una formidabile arma di potere in mano alle toghe e alcuni politici, speravano di avere l’arma dalla loro parte e soprattutto dal verso del manico. La cosa strana è che i politici democristiani e di area liberale, come i succitati, non capissero cosa stesse bollendo in pentola. E prima della applicazione pratica, che avverrà solo dopo il 1948, della teorizzazione togliattiana dell’occupazione della magistratura si apprestavano a dare in mano ai comunisti questa formidabile arma.
L’altra tesi partiva, invece, dalla consapevolezza che bisognava evitare di creare un corpo separato e di fare il Csm despota dell’ordinamento della magistratura (onorevole Giuseppe Grassi dell’Unione democratica nazionale). Era da perseguire “l’esigenza di realizzare un’armonia istituzionale”, come sosteneva l’ onorevole Dante Veroni del Gruppo democratico del lavoro. Nonché “di assicurare continuità tra vita sociale e vita istituzionale e di far sentire un soffio di vita esterno all’ordine giudiziario”, sempre per citare l’onorevole Giovanni Leone. Ma anche, come sostennero con grande lungimiranza gli onorevoli Luigi Preti, Francesco Dominedò e Giovanni Persico, di “impedire la creazione di uno Stato nello Stato”, di una “casta chiusa e intangibile”, “separata e irresponsabile”. Insomma un “mandarinato”. All’epoca, quindi, questi timori li aveva la sinistra, ironia della storia. Anche se qualche Dc, come l’onorevole costituente Giuseppe Cappi, uno che invece aveva già capito cosa c’era in serbo per il futuro, disse che “un organo del tutto separato dagli apparati amministrativi dello Stato e sottratto al controllo dell’organo di rappresentanza popolare, dei mezzi d’informazione e della stessa pubblica opinione”. La proposta contenuta nell’articolo 97 del progetto originario di Costituzione assegnava al Csm una composizione paritetica, con la partecipazione “fuori quota” del Primo Presidente della Corte di Cassazione quale Vice Presidente. Nel contrasto fra le due scuole di pensiero si pervenne ad un compromesso e fu accolto l’emendamento suggerito dall’onorevole Oscar Luigi Scalfaro nella seduta pomeridiana del 12 novembre 1947: due terzi dei membri togati e un terzo di membri laici.
Se quell’emendamento risolse lì per lì le dispute tra i togliattiani e “il resto del mondo”, e si deve tenere conto che l’Italia non era ancora entrata nell’orbita atlantica come avverrà con le elezioni del 18 aprile 1948, il compromesso scalfariano negli anni seguenti al 1958 si rivelerà assolutamente insufficiente a sopire i tentativi dei partiti poltici di sinistra di strumentalizzare la magistratura così come il reciproco di ciò. Il Csm diventerà nel tempo la grande stanza di compensazione dove con la logica correntizia avverrà questa mediazione impossibile. E anche i giudici che hanno voluto fare carriera ne avrebbero dovuto prendere atto, tanto che ancora oggi se ne lamentano nei loro blog e lo hanno fatto in forze subito dopo il discorso commemorativo di Napolitano. Infine, e siamo ai giorni nostri, dopo l’inizio degli anni ’90 ogni equilibrio salterà definitivamente, con l’organo di autogoverno dei magistrati ridotto a puro registro notarile delle decisioni del sindacato togato dell’Anm, su tutto quanto concerne ogni aspetto dello scibile umano, a partire dai rapporti ormai impossibili tra politica e magistratura. Di lì nascerà il partito dei giudici e da lì partiranno le prime benedizioni a Di Pietro e al dipietrismo, così come di lì negli anni successivi nascerà l’opposizione “senza se e senza ma” al fenomeno Berlusconi in politica in generale e alla legittimazione del suo diritto a governare una volta eletto in particolare.
di Dimitri Buffa
da L'Opinione delle Libertà

giovedì 20 novembre 2008

VALENTINO ROSSI A BORDO DEL CAVALLINO

Rossi sulla Rossa: alla fine Valentino è tornato al suo vecchio amore e oggi, dopo dopo le 11, è sceso di nuovo in pista al Mugello con la Ferrari F2008, la macchina che ha appena corso il mondiale. Ferrari, Yamaha e il team del campione hanno sottolineato in ogni modo che questo è solo "una specie di regalo che la casa di Maranello ha voluto fare a Rossi per il suo mondiale". Il problema è che tutti dicevano la stessa cosa anche tre anno fa, quando si scoprì alla fine che c'era davvero la possibilità che il fenomeno di Tavullia passasse in F1.
A bordo pista ad assistere ai test si sono visti anche il Team manager Yamaha, Davide Brivio, il padre Graziano Rossi e il direttore generale della Gestione sportiva, Ferrari Stefano Domenicali. Un pubblico da grandi eventi, insomma. D'altra parte, secondo indiscrezioni, Rossi l'altra volta aveva davvero stupito sulla Ferrari di F1.
E non tanto per i tempi sul giro quanto per alcuni tratti di pista (le curve per essere precisi) percorsi con la stessa velocità dei veri piloti di F1. E' lì che oggi si fanno i tempi ed è lì che Valentino, convinse i super tecnici che il suo passaggio in F1 poteva avere un senso. La telemetria insomma non sbaglia e se allora aveva promosso a pieni voti Valentino c'è da scommettere che succederà anche nei test di questi giorni. Per ora Rossi ha già percorso una trentina i giri, prendendo confidenza con una macchina che (rispetto a quella che aveva guidato tempo fa) non ha più il controllo di trazione elettronico. Poco prima della sosta per il pranzo, i tempi hanno cominciato a scendere fino a far segnare un ufficioso 1'23"930, a meno di 3 secondi dal tempo del collaudatore Ferrari Luca Badoer, effettuato con la stessa vettura nel settembre scorso.
di Cirdan